Ci sono accadimenti nella vita di ognuno, dei quali si possa dire più o meno orgogliosamente: “io c’ero”, posso testimoniarlo, posso raccontarlo.
Chi era a New York quell’11 settembre maledetto, chi a Berlino nell’89, chi alla vittoria dei mondiali in Spagna, anno 82 e si potrebbe continuare a lungo, tante sono le date che per un motivo o per l’altro hanno segnato la storia.
Concerti, attacchi terroristici, inaugurazioni, crolli di ponti o palazzi, lanci nello spazio, tsunami, premi Nobel, colpi di Stato, terremoti…
Già terremoti, noi italiani del sud Italia soprattutto, anche se il Friuli pagò anche esso un caro prezzo, siamo avvezzi a quelle scossette snervanti che ti colgono all’improvviso, ti terrorizzano e nel giro di un battito di ciglia ti abbandonano, lasciandoti poi per giorni immersi nello sconforto e nella paura.
Quel 23 novembre non fu un battito d’ali o di ciglia.
Mia mamma aveva una camera da letto ton su ton, carta da parati, moquette, allora tanto in voga, tutto di un azzurro intenso e aveva fatto rivestire due poltroncine deliziose, di quelle che oggi ammiriamo nelle ricostruzioni scenografiche delle fiction anni 60, anch’esse azzurro polvere.
Ero seduta su una di queste e ascoltavo al telefono la voce di mia nonna.
Allora il telefono era fisso, attaccato alla presa e non potevi andartene a zonzo mentre parlavi, stirare, girare il sugo o giocare a burraco, se telefonavi facevi quello e basta e in effetti, ripensandoci, era davvero un attimo di relax dedicato solo alla persona, dall’altro capo di quel filo che con tanto cinismo avemmo fretta di recidere, lasciando il posto a queste scatolette tascabili, dalle quali siamo ahime’ diventati schiavi.
Ero una ragazzina e mi faceva piacere chiacchierare con l’unica nonna che abbia vissuto e di cui vesto il nome, era ancora lontana la fase dei rimproveri, dei sensi di colpa dei “non chiami mai, non passi mai a trovarmi e bla bla ..” eravamo ancora alla fase nonna dolce, affettuosa e premurosa, scevra da gelosie di più tarda età, dalle manie da nonne.
A un certo punto questa poltroncina sulla quale ero seduta, cominciò a tremare, era domenica, era buio, erano le 19,35.
Tremava ancora e non capivo, pensai a qualcuno che da sotto muovesse le gambe della sedia, forse per farmi uno scherzo, oppure a un cane, un gatto, in verità non capivo e non sapevo a cosa pensare, era il primo terremoto a cui assistevo. Mia nonna capì, me lo disse e chiuse di corsa il telefono, lasciandomi attonita con la cornetta in mano.
Si palesò subito in camera mia mamma, mi disse di correre all’ingresso sotto la porta di casa, e lo stesso fece Giovanni, mio fratello che era nella sua camera in fondo, l’ultima di quell’appartamento tipico con corridoio lungo, soffitti alti e tanti metri quadri…ebbene quando giunse anche Gio’ sotto la porta, il terremoto insisteva, ci guardammo negli occhi e ancora mi viene la pelle d’oca al pensiero di quello sguardo, i lampadari del salone che intravedevo dai vetri delle porte stile inglese che mia madre tanto aveva desiderato, oscillavano al pari di un’altalena in un parco per bambini.
I vetri tremavano rumorosamente, mio fratello ci guardò e disse “ma non finisce mai…” lo disse come sfogo, come sconforto, come panico.
Non sapevamo se a quel punto fosse meglio scendere per le scale o rassegnarci all’idea che tutto potesse crollarci sulla testa, che saremmo finiti lì; mia madre aveva il pensiero al resto della famiglia che non era esiguo: mancava all’appello papà e ben quattro mie sorelle, di domenica tardo pomeriggio, potevano essere ovunque.
Leggevo la preoccupazione nei suoi occhi cerulei, le labbra serrate, poi finalmente smise, dopo quei 100 secondi che sembrarono mille, passò.
Ma nulla era più fermo, non le porte, non i lampadari, non i nostri cuori che continuarono a battere all’impazzata e ancora.
L’uomo di fronte al terremoto è un nulla, indifeso, vulnerabile, può solo soccombere, questa la lezione che tutti imparammo in quella domenica, poi la conferma, da un susseguirsi di telegiornali, edizioni straordinarie a tutte le ore e la computa dei morti, i salvataggi miracolosi e le vittime, tante che iniziavano ad avere un volto, un nome, una storia.
Avete presente nel Vangelo la ridondante immagine “E sarà pianto e stridor di denti”?
Ecco. Alcuni paesi rasi al suolo, macerie e basta, freddo e lacrime, rabbia e sconforto.
Nacque la Protezione Civile in seguito a quell’imminente disastro e forse fu l’unica cosa buona.
Io c’ero quel 23 novembre. Correva l’anno 1980 e mi affacciavo alla vita.