Su Netflix da circa un mese è in onda un docufilm sulla storia di San Patrignano, comunità di recupero per tossicodipendenti che conobbe il suo splendore a cavallo tra gli anni 80 e quelli 90.

La mini serie rispecchia un po’ l’iter di questa realtà: all’inizio si parla di cosa fosse e come fosse strutturata, nelle ultime due puntate si parla solo del suo fondatore, Vincenzo Muccioli.

Fu infatti, anche all’epoca, un vero peccato dover spostare l’attenzione mediatica dal problema della droga, quella vera, quella del buco, dell’overdose, della morte, al dover indirizzare lo sguardo su quest’uomo, un pezzo d’uomo come si dice, innamorato di se stesso e delle sue innegabili capacità carismatiche.

Per chi non c’era mi corre l’obbligo di spiegare che, all’epoca dei fatti, i tossici erano completamente abbandonati al loro destino di reietti, schifati dalla società, spesso condannati dalla magistratura per i piccoli reati, di cui si rendevano colpevoli, per procacciarsi la roba. Avanzi di galera dopo qualche anno.

Erano la disperazione delle loro famiglie, scippatori delle loro stesse mamme, ladri di appartamento, il loro, più che spesso.

Ragazzi giovani, senza lavoro, senza interessi, senza futuro, di cui lo Stato diciamocelo con franchezza, non sapeva che fare e se ne infischiava altamente.

Muccioli ha saputo dare loro una speranza, una via d’uscita, una nuova famiglia e soprattutto la sopravvivenza, nella maggior parte dei casi, a quel veleno che li uccideva nel corpo e nell’anima.

L’ha fatto però, quest’uomo romagnolo, caloroso, imponente nel fisico e nella voce, sostituendo la loro dipendenza dalle sostanze, con la dipendenza dalla sua persona.

Quegli ospiti di quel luogo, che s’ingrandiva sempre più fino a diventare una vera azienda agricola e autosufficiente, erano nulla senza il loro Vincenzo, padre putativo, fratello maggiore, terapeuta, consigliere, amico, forse anche amante di taluni, si vocifera.

Egli li teneva soggiogati dallo sguardo magnetico, dal suo potere manipolatore e qualora non cadessero nella sua rete ipnotica, dalle catene, quelle vere, di ferro, fredde e dure come forse la sua spietatezza.

Sì perché diciamo la verità, per calmierare gli animi e i corpi di più di duemila ex o ancora tossicodipendenti, è la spietatezza che occorre!

Non nascondiamoci dietro falsi buonismi, chiediamolo alle madri di quei giovani se non vedevano i figli in preda all’astinenza, come delle bestie assatanate contro le quali avrebbero fatto qualunque cosa, se avesssero avuto il coraggio e la forza fisica, pur di fermarli e interrompere quello strazio.

Ecco Muccioli aveva questo: il coraggio, la forza fisica, una certa sfrontatezza, la sicumera di agire nel giusto, le spalle coperte da generosi e benestanti finanziatori, in seguito anche politicanti e quindi ancora più potenti.

Lo scandalo non sta tanto nelle catene, non sta tanto nei due casi di suicidi, nemmeno che il fondatore di San Patrignano sia morto di Aids, come da insistenti rumors che implicitamente alludono ad una sua omosessualità, lo scandalo sta nel fatto che un uomo, un uomo da solo abbia dovuto sostituirsi allo Stato, il nostro Stato, il governo di una Nazione che era ed è l’Italia, non il Burundi.

Lo Stato che taceva, che era assente ingiustificato, colpevole latitante e lasciava che Muccioli provvedesse, al suo posto.

Papà Muccioli lo faceva con i suoi metodi, da egocentrico, narcisita che si beava della massiccia presenza di giornalisti e genitori, sempre pronti a tifare per lui, all’uscio della comunità.

Alcuni forse coi suoi sistemi li avrà rovinati per sempre, altri li ha di sicuro salvati.

Aldilà della simpatia personale, dell’apprezzamento o meno del personaggio Muccioli, difficile condannarlo o assolverlo.

Credo che sia il classico esempio di verità che sta nel mezzo.

Ha abusato? Di sicuro era un misogino, di sicuro la vergognosa metafora dell’anello e del dito posta a giustificazione di uno, o più stupri, non gli fa onore, certamente omertoso sulle squallide e violente dinamiche della sua corte, ma anche ripeto, responsabile di un disegno immenso, per un uomo solo.

Una opera maestosa, anche dal punto di vista architettonico, un impero e lui un feudatario padre/padrone con ai suoi piedi tanta disperazione, ma anche tanto riscatto.

La serie, a parer mio, come detto, pecca di scostamento dalla realtà del luogo per soffermarsi troppo sulla sua figura.

Però nell’insieme scivola bene e lega comunque allo schermo il telespettatore che dalla prima scena è costretto a chiedersi dove sia quel sottile confine tra bene e male e tra “faccio del bene, pur istigando al male”.

Ho trovato patetiche a dirlo con sincerità, le figure di Red Ronnie e del figlio Andrea; una difesa così marcata, un po’ a tratti ottusa, potrei forse perdonarla al figlio, anche se l’obiettività soprattutto dopo i trenta anni trascorsi, sarebbe stata la strada maestra per un racconto apprezzabile, ma da un giornalista, amico certo, ma non completamente ottenebrato, almeno nei desiderata dello spettatore, mi sarei aspettata più imparzialità.

Per quanto riguarda la sua carissima amica, Letizia Moratti, ha posto il diniego ad un’intervista per il documentario. Era impegnata col suo nuovo giocattolino: l’assessorato alla sanità e la vicepresidenza, del comune di Milano…